FNHS - Fake news e hate speech: il "disturbo informativo" dei social media come limite alla libertà di espressione negli ordinamenti democratici
Fake news and hate speech: social media 'information disorder" as a limitation to freedom of expression in democratic regimes
Progetto Dipartimentale di Sviluppo 2018 - 2022
Ambito disciplinare Macroarea 3
Area scientifica Area 14 - Scienze giuridiche
Tipologia finanziamento Altro
Tipo di progetto Nazionale
Stato progetto Concluso (archiviato)
Data avvio: 1 October 2021
Data termine: 30 September 2022
Durata: 12 mesi
Importo: € 24.000
Coordinatore: Giovanni Cinà
Supervisor: Filippo Viglione
Principal investigator:
Giovanni Cinà
Abstract:
Il progetto di ricerca intende analizzare la relazione tra fake news e hate speech, due fenomeni spesso presentati come appartenenti a dimensioni diverse, e tuttavia accomunati non sono dalla virtualità del loro habitat naturale (con effetti che tracimano nella realtà concreta), ma anche dai medesimi principi fondamentali che mettono in tensione la libertà di manifestazione del pensiero di tutti.
La cornice teorica comune è allora quella del "disturbo informativo" e all'interno di essa va esaminata la distorsione del dibattito pubblico causata dalla non sempre precisa collocazione dei confini tra vero e falso, tra satira e insulti, tra ironia e minacce. Tale "disturbo" infatti, può ledere non solo i diritti fondamentali della persona, ma anche la coesione della società, arrivando financo a compromettere la tenuta democratica di un ordinamento.
In altre parole, fake news e hate speech appartengono a uno spazio semantico e normativo comune che la politica (del diritto, ma non solo) deve prendere in considerazione. Pertanto, una soluzione efficace del problema, che presenta una irrefutabile dimensione globale, dovrà necessariamente inserirsi in un quadro multilevel governance in cui diventerà fondamentale individuare il livello ottimale della normazione.
Proprio sul piano giuridico la risposta degli ordinamenti sembra sbilanciata sul versante repressivo-penalistico, sottovalutando il contributo che potrebbero dare i rimedi civilistici sui quali si vuole invece concentrare questa indagine.
Obiettivi:
A) La maggior parte delle discussioni sul disturbo informativo nei contesti statunitense ed europeo si è concentrata sui messaggi politici che, sebbene preoccupanti da una prospettiva democratica, tendevano a non incitare alla violenza, almeno fino a pochi mesi fa. In effetti, se la disinformazione aveva già portato alla violenza in parti del mondo apparentemente lontane da noi [si pensi alla rivolta di Mandalay nel Myanmar, a luglio 2014, in cui due persone sono state uccise per odio religioso (Stanley, 2017)], ora neppure il mondo occidentale può dirsi immune. Il riferimento, ovviamente, è al tentativo di insurrezione del 6.1.2021, a Washington D.C., che ha sospeso per qualche ora il procedimento di certificazione delle elezioni presidenziali. Ad ogni modo, il bisogno di una maggior comprensione delle dinamiche della comunicazione online per informare la politica legislativa (ma non solo) è diventato ancora più rilevante.
B) Si cercherà di individuare un livello ottimale della normazione del fenomeno ovvero la miglior combinazione possibile delle fonti. Così facendo, (i) si tenterebbe di colmare eventuali lacune normative; (ii) si favorirebbero il coordinamento e il raccordo con la normativa esistente, evitandone la frammentarietà tra i livelli nazionale, europeo e internazionale (una delle maggiori criticità infatti è la valutazione “decontestualizzata" del singolo post, vagliato in base alla legislazione del Paese in cui si trova il server e non di quello in cui risiede il suo autore o la vittima), (iii) si individuerebbero con più facilità i rimedi a disposizione.
C) Lo spazio dei rimedi civilistici sarebbe riservato a quelle condotte che, da un lato, non superano la soglia di offensività idonea ad attivare una potestà punitiva e, dall’altro, richiedono molto più che azioni positive o interventi nei settori dell’educazione, formazione o informazione (comunque necessari).
Piano delle attività:
A) Oggi quasi ogni discorso sull’importanza della libertà di espressione è spesso accompagnato da un caveat sui fenomeni di hate speech e fake news. Questi temi sono troppo importanti per iniziare a regolamentarli finché non abbiamo una nozione condivisa di tali termini. L’attività di ricerca allora dovrà preliminarmente occuparsi di individuare e definire un concetto quantomeno funzionale di hate speech e di fake news, riconducendoli entrambi alla categoria dell’information disorder.
B) Definita così la cornice teorica, la ricerca dovrà verificare se ed in quale misura essa combaci con il formante legislativo e giurisprudenziale, partendo dall’ordinamento italiano ma proseguendo “verso l’alto” nel tentativo di ricostruire l’approccio multilevel, che sembra imprescindibile data la natura del fenomeno in questione. Il metodo che si adotterà sarà quindi quello della scienza comparatistica che consentirà di evidenziare le dissociazioni “tra tecniche giuridiche e valori alla cui implementazione quelle tecniche sono rivolte” da cui potranno emergere similitudini e differenze tra gli ordinamenti.
C) In una situazione in cui i social media sembrano ergersi a paladini, interessati, della libertà di espressione e le istituzioni faticano a disciplinare la loro attività, in cui distinguere il confine tra tale libertà e il diritto a non essere offesi rimane di difficile individuazione, chiedersi se Facebook e Twitter abbiano fatto bene a bandire Donald Trump dalle proprie piattaforme diventa fondamentale. Una risposta negativa sarà fondata sulla prevalenza assoluta del free speech. Una risposta positiva invece potrà avere diverse motivazioni: perché è un pericolo per l’ordinamento democratico? Per la diffusione di menzogne prive di fondamento alcuno? O per le sue posizioni intolleranti e discriminatorie? A seconda della risposta che si dà (e cioè in base al bene giuridico che si ritiene di dover tutelare) cambia il punto di vista sui limiti su ciò che può essere detto o no.
Contatti:
giovanni.cina@unipd.it
Risultati:
Un compromesso accettabile tra le due grandi tradizioni giuridiche occidentali appare ancora lontano poiché, sebbene gli USA e le democrazie liberali europee concordino sull’importanza della libertà di espressione, e in particolare sulle conseguenze dannose dei discorsi d’odio, rimangono in disaccordo sull’opportunità di un intervento da parte dello Stato. Un differente approccio potrebbe però basarsi su una maggiore valorizzazione della dignità, termine certamente polisemantico, che invero anche negli Stati Uniti è stata spesso posta a fondamento della libertà di espressione, arrivando tra l’altro a considerare il Bill of Rights come un “bold commitment by a people to the ideal of dignity protected through law”. È possibile cioè intendere la dignità anche come tutela della persona nella sua integrità, e ciò non solo sul piano fisico ma anche morale. Esistono infatti numerose definizioni di discorso d’odio, ma nella sua essenza esso comporta la riduzione di un individuo (o gruppo di individui) ad un singolo tratto personale ritenuto incompatibile con un presupposto modello di “virtù”. La Corte Suprema USA ha fatto riferimento alla dignità in tale accezione, proprio per descrivere e prevenire i danni che si verificano quando una caratteristica personale di questo tipo viene inserita nel dibattito pubblico, facendo svanire tutte le altre caratteristiche di quella persona (o gruppo). Ad esempio, è stato ritenuto che quando un presunto fatto negativo su una persona (vero o falso che sia) diventa tutto ciò che il gruppo sociale vede e conosce di quella persona, la sua dignità fosse a rischio perché “‘[t]he right of a man to the protection of his own reputation from unjustified invasion and wrongful hurt reflects no more than our basic concept of the essential dignity and worth of every human being”: cfr. Milkovich v. Lorain Journal Company, 497 US 1 (1990). Anche al di là dell’Atlantico, quindi, non sempre i diritti di chi parla devono prevalere su quelli di chi ascolta.